giovedì 10 marzo 2016

LA PEAK EXPERIENCE:

LA PEAK EXPERIENCE

UN'ESPERIENZA CHE CI AVVICINA AL NOSTRO SE'


Questo concetto fu introdotto da Maslow nel 1968 e fa riferimento a quell’esperienza di particolare euforia e benessere che si può vivere in alcuni momenti di estrema felicità. E’ una esperienza che aiuta le persone ad entrare in contatto profondo con delle qualità fondamentali della vita, qualità delle quali spesso non si è consapevoli e che è difficile condividere.
La peak experience fu utilizzata da Maslow nel 1954 all'interno del pensiero complesso di "Piramide dei bisogni" nella quale egli diede una spiegazione del percorso di autorealizzazione e dove questo nuovo concetto costituendo un aspetto centrale di tale pensiero.
 Secondo Maslow la peak experience  era parte indissolubile “dell’auto-realizzazione”. Egli ne ha dato la seguente definizione nel libro Verso una psicologia dell’essere nel 1968:

…un episodio o un’improvvisa ondata, in cui tutte le potenzialità di una persona scorrono insieme in modo particolare, orientato all’obiettivo ed intensamente gratificante, nel quale la persona è più integrata e meno scissa, più aperta all’esperienza, maggiormente mossa dalla sua specifica natura o disposizione, più spontanea ed espressiva, più pienamente funzionante, più creativa, umoristica, ego-trascendente, meno dipendente dai suoi istinti più bassi, ecc. In questi momenti l’individuo diventa più pienamente se stesso, più forte nella realizzazione delle sue capacità, più vicino all’essenza del suo essere, più pienamente umano…
Spesso questa sensazione di flusso prepara alla peak experience successiva, anche se può essere una esperienza presente di per se stessa nella nostra vita quotidiana.  Le caratteristiche della peak experience sono abbastanza conosciute da essere raccolte in un elenco definito.


Quali sono le caratteristiche dell'experience peak?


1. Variazione nella percezione del tempo che sembra fermarsi o espandersi all’infinito, rallentare, o al contrario, accelerare.
2. Cambiamento o distorsione della percezione dello spazio, cambiano le dimensioni fisiche o le forme; ad esempio, una buca da golf diventa improvvisamente grande come una vasca da bagno in modo che non la si può mancare. L’esperienza diventa ‘incorniciata’, sembra emergere dal contesto in un forte campo energetico.
3. Avvengono cambiamenti in tutte le percezioni sensoriali, nella vista, nell’olfatto e nel suono. Tutti i sensi diventano più sensibili. I colori possono cambiare e diventare più brillanti; un albero ricoperto di neve può ‘cambiare’ il suo colore in verde brillante; un silenzio può diventare udibile e la vista può aguzzarsi.
4. L’esperienza è percepita come la rottura di un confine, o come l’espansione di quest’ultimo, anche se non conduce a una medaglia d’oro e non è in gioco una prestazione vera e propria.
5. Le persone affermano di aver avuto un’esperienza transpersonale, di trasformazione o religiosa. Sono stupite; si sentono come se avessero raggiunto l’obiettivo della loro vita e lo esprimono come ‘se morissi proprio adesso, andrebbe bene così’.
6. Il corpo è sempre coinvolto nell’esperienza, ma ci può anche essere una mutata percezione delle sensazioni o dei movimenti. Gli individui descrivono spesso questa esperienza con i movimenti delle mani e delle braccia, proprio per mostrare l’espansione – qualcosa di grande, più grande di loro.
7. Le sensazioni che accompagnano l’esperienza sono la morbidezza, l’amore, la felicità, la semplicità, l’integrità, la grazia del corpo (che indica anche la mancanza o l’assenza di paura). Le persone ricordano sempre una parte dell’esperienza in modo molto chiaro, come ‘una scintilla’; almeno una parte spicca in modo molto chiaro, non importa quanti anni prima sia accaduto.
8.  Una peak experience non è facilmente condivisibile; di solito è vissuta come qualcosa di unico. Quando nessun altro assiste a questa esperienza, molti si sentono soli o isolati con essa, a volte addirittura bloccati.
9. C’è un senso interiore di significato profondo, come se si fosse ricevuto un ‘messaggio’, si sente la direzione della vita, la sua essenza; si sente una voce che parla alla persona coinvolta.
10. L’attività in cui rientra la peak experience è spesso orientata a uno scopo.
11. L’esperienza coinvolge un livello molto alto di energia o uno stato di carica elevata sia psicologicamente che nel corpo.

Interessa la Peak experience? Allora vieni a conoscere il concetto di flow

http://equilibriopsicologiasport.blogspot.it/2016/03/flow-e-meditazione.html

ALLENARE LA MENTE, NON SOLO IL CORPO

“Una volta conseguito un discreto livello di preparazione fisica, tutto il resto sta nella mente”.
                                   Nick Faldo

Allenare gli aspetti mentali di un’atleta ormai è un fattore fondamentale per raggiungere i propri obiettivi.


Il binomio mente corpo è consolidato dai tempi degli antichi che già avevano colto l’importanza di saper lavorare in armonia incrementando sia il fisico sia la mente di una persona. L’armonia richiama l’equilibrio, la pace con sé stessi quindi per rendere oltre i propri limiti per un atleta professionista e non, c’è bisogno di allenare con cura e costanza anche la fase mentale dello sport. 
Ormai nello sport professionistico allenare il corpo non basta più, bisogna allenare in modo costante e ottimale anche la fase mentale.

In che modo? 

Per esempio utilizzando tecniche di visualizzazione, il self talk, oppure attraverso l’ausilio delle ultime tecnologie come la realtà aumentata o la realtà virtuale. Gli aspetti mentali influenzano moltissimo la prestazione sportiva attraverso il livello della motivazione in ciò che si sta facendo, nell’autostima e nell’equilibrio con sé stessi, raggiungibile attraverso il biofeedback che serve per automonitorare il proprio corpo a seconda dei segnali che ci invia. 


Uno sportivo vive sempre dei momenti decisivi dove a volte il corpo è stanco ma la mente dev'essere lucida e controllare minuziosamente il corpo affinché riesca nel proprio corpo. 

Come fa un giocatore di basket a tirare all'ultimo secondo di una partita sapendo che se sbaglia la partita andrà persa, e se invece farà canestro la sua squadra vincerà?

Come fa un tuffatore all'ultimo tuffo a realizzare tutta la sequenza in modo corretto tenendo a mente tutti i passaggi che deve eseguire?

Come fa un golfista a essere tanto concentrato nel colpire una pallina o un tennista a rimanere calmo durante un tie-break?

Non è solo una questione fisica, è soprattutto una questione mentale. La testa fa tutto, il controllo della mente sul corpo fa la differenza tra i campioni e coloro che sono forti ma non arriveranno mai a vincere sempre ed essere determinanti per le loro sorti sportive. 

Prendo come esempio Micheal Jordan, il più forte giocatore di tutti i tempi di basket, non solo per la tecnica ma soprattutto per la sua grandissima tenacia e perseveranza nella ricerca della perfezione. Qui di seguito troverete il video della sua ultima azione con la quale consegno la vittoria del titolo NBA del 1998 ai suoi Chicago Bulls contro gli Utah Jazz.
Buona visione!




Alberto Fiaschè





bibliografia:


  • Binari S., Psicologia dello sport – una visione strategica, ed. Bradipolibri, 2013
  • Cei A., Psicologia dello sport, il Mulino, 1998









LA MOTIVAZIONE: LA SPINTA AL SUCCESSO

La motivazione può essere definita come
“un insieme strutturato di esperienze soggettive che spiega l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza di un comportamento diretto ad uno scopo.”
De Beni e Moè



L’origine del processo motivazionale può essere sia interno sia dovuto a stimoli ambientali esterni, ma in ogni caso si esplica interiormente per poi tradursi negli atteggiamenti dell’individuo in questione.
 Essa è soggettiva perché interna ma può essere esplicitata attraverso il comportamento, che è un fenomeno osservabile. È doveroso distinguere i comportamenti motivati, che dipendono dalla consapevolezza di raggiungere uno scopo ben preciso per il soggetto, dai comportamenti passivi che sono quelli che si presentano in conseguenza a un vincolo; questa differenziazione è stata approfondita nella teoria dell’autodeterminazione sviluppata da Ryan e Deci (2000). 

Gli autori sostengono che vi sia un continuum tra l’assenza motivazionale e la piena motivazione intrinseca, dove l’assenza può essere spiegata con il termine “devo” mentre la piena motivazione può essere spiegata con il termine “voglio”. È chiaro che nel primo caso il soggetto agisce controvoglia mentre nel secondo vi sono stati emotivi positivi. Un’altra caratteristica della motivazione è che non si traduce sempre in comportamenti, come nel caso delle aspirazioni o di quelle ambizioni che non si realizzano concretamente e questo influisce di conseguenza anche sul livello di consapevolezza delle persone su ciò che le spinge ad agire o meno. È fondamentale saper controllare le proprie motivazioni perché ciò permette di poterle usare come ausilio per altri processi, perché in questo modo possono anche essere migliorate nel tempo. Infine è importante delucidare che le credenze motivazionali se sono a base genetica sono stabili nel tempo mentre non sono tali se hanno una base cognitiva. 

I sistemi motivazionali si fondano su disposizioni innate, selezionate dai processi evoluzionistici, biologicamente volte a organizzare il comportamento verso il raggiungimento di scopi specifici. Essi ci portano ad agire con il fine di modificare il rapporto tra sé e l’ambiente (fisico e relazionale) in modo vantaggioso alla sopravvivenza (individuale e della specie).

Le motivazioni si dividono a seconda della loro origine che si dividono tra INTRINSECA o ESTRINSECA.

La motivazione INTRINSECA è caratterizzata da una spinta interna, che muove il soggetto a raggiungere un determinato obiettivo per soddisfare un bisogno di appagamento nel soggetto, esempio voler vincere un campionato per il coronamento di un sogno.
La motivazione ESTRINSECA invece è una spinta che proviene dal mondo esterno, per esempio da parte di terzi che al nostro raggiungimento di un determinato obiettivo ci premia, esempio il voler vincere un campionato per poterne incassare più premi economici.



bibliografia:
    La motivazione; A.Moè; Il Mulino, 2010, Bologna.



Alberto Fiaschè



PERCHE' RIMANDIAMO TUTTO AL DOMANI? LA PROCRASTINAZIONE

"SE NON ORA, QUANDO?"


Alcuni di voi forse non conoscono nemmeno il significato di questo termine, altri invece è un comportamento che attuano tutti i giorni spesso senza nemmeno accorgersene. A volte può essere solo pigrizia, a volte invece è un comportamento messo in atto per evitare conseguenze sgradevoli o le proprie paure.

Semplicemente si tratta di rimandare sempre “tutto all’ultimo momento”, senza organizzarsi per tempo e a volte ledendo la qualità del lavoro svolto per questo accumulo negli ultimi istanti; ed alcuni studiosi hanno indicato come un “errore del cervello” in quanto non ci permette di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Alzi la mano chi di noi non ha mai rimandato una consegna, un esame o anche solo un impegno che si era preso con sé stesso come ad esempio una dieta. Nessuno? Nemmeno uno che non ha MAI rimandato nulla? Se siete tra coloro che non hanno alzato la mano siete in ottima compagnia, visto che più di due terzi della popolazione procrastina continuamente. 

Procrastinare avviene in moltissimi contesti diversi come quello lavorativo, sportivo, e anche universitario, tant’è che la studiosa Louise Schouwenberg nel 1995 riferì che oltre il 70% degli studenti universitari rimandava compiti o esami da svolgere. Nel 1997 Tice e Baumeister condussero uno studio su un campione di 60 studenti di psicologia ad inizio del semestre comunicarono la data di consegna dell’elaborato per la fine del corso, avvisandoli che se non ci fossero riusciti a stare nei tempi prestabiliti avrebbero avuto una proroga di un ulteriore mese. Gli studenti furono sottoposti a varie valutazioni di misurazione della procrastinazione durante lo svolgimento del corso ed al termine dello stesso, e i risultati riportati hanno dimostrato che i soggetti procrastinatori mostravano un alto livello di stress e numerosi sintomi di malessere fisico, oltre ad aver avuto mediamente una media voto più bassa rispetto a chi non procrastina.

I problemi non si risolveranno mai se verranno rimandati, anzi si presenteranno in maniera ancora maggiore un domani; da procrastinatore che vuole migliorarsi posso solo consigliarvi questo antico proverbio:

“Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”. 



bibliografia:


  • Psicologia generale, D.L.Schacter, D.T.Gilbert, D.M.Wegner; Zanichelli, 2014, 5°ristampa, Bologna.




Alberto Fiaschè

FAIR PLAY: PERCHÈ ESALTIAMO UN COMPORTAMENTO CHE DOVREBBE ESSERE NORMALE?


IL FAIR PLAY

è sinonimo di sportività, ed è al dir poco bizzarro che sia un concetto sul quale spesso si parla o si discuta, quando esso altro non è che uno dei concetti cardine di sport. Sport significa sfidare prima di tutto se stessi e gli altri all’interno di un gioco con regole predefinite basandosi sulla lealtà e non sull’inganno. 
Lo sport inizia dalla cultura ellenica, che furono i primi ad indire lo sport come momento fondamentale all’interno della loro società, addirittura durante le Olimpiadi le guerre in corso venivano interrotte per la durata dei giochi. Nel 1896 indisse i Moderni Giochi Olimpici ad Atene esso riprese tutti i concetti greci, ed il suo motto fu: 
“l’importante non è vincere ma partecipare”
dove sottolineava il fatto che colui che conclude la propria gara non sarà mai sconfitto. 

Prendiamo come esempio il rugby uno degli sport più nobili che vi siano, ma al tempo stesso uno dei quali dove il contatto fisico è largamente concesso, ma dove vige un grandissimo rispetto dell’avversario e dell’arbitro. Nonostante gli infortuni siano numerosi e presenti nella gran parte delle partite, e uno sport così “violento” all’interno del gioco comporti anche ad un carico di adrenalina e agonismo davvero alto, i giocatori riescono nella maggior parte dei casi a contenere la propria rabbia agonistica solamente all’interno del rettangolo di gioco. Se aveste mai la possibilità di assistere ad una partita di questo sport potrete assistere a 30 giocatori che non si risparmiano botte e scontri, ma nel momento in cui l’arbitro interviene essi cedono ogni ostilità sportiva, rispettando quasi sempre il verdetto dell’arbitro e nei casi di proteste queste vengono sempre presentate con modalità educate. 
Il concetto di rispetto è alla base di ogni sport, ma questo sport è l’esempio più lampante di come queste regole vengano rispettate, oltre che vi è un’usanza davvero ammirevole come il terzo tempo, dove a fine gara i vincitori concedono la passerella d’onore agli sconfitti, per poi trovarsi a mangiare e bere tutti insieme a fine partita, per far capire che nonostante l’astio della gara ciò che più gli accomuna è l’amore verso lo sport.
La Fiorentina anni fa provò a esportare questo concetto di terzo tempo anche nel calcio, purtroppo in meno di un anno fu mestamente abbandonato. 

IL PERCHÉ?

Provo a dare la mia risposta: perché in Italia manca educazione sportiva. Non siamo ancora pronti, nella nostra penisola settimanalmente assistiamo a episodi di cronaca che vanno contro ogni concetto di sport, genitori che alle partite dei figli insultano gli avversari fino ad arrivare a generare risse, dimenticandosi che lo sport dovrebbe unire e non dividere. 

Il calcio paga il prezzo di essere lo sport più popolare in Italia, e trovo discutibile che la serieB da questo inverno abbia introdotto il cartellino verde, ovvero un cartellino che va a premiare i giocatori che si distinguono per comportamenti sportivi all’interno di una partita. 

Trovo che sia davvero triste dover lodare coloro che si distinguono per “meriti” che lo spirito dello sport dovrebbe racchiudere nelle proprie viscere, ma se si è arrivati ad attivare determinate soluzioni forse significa che vi è da colmare davvero tanto nell’educazione sportiva. Educazione sportiva che dev’essere insegnata a tutti i bambini e ragazzi che si affacciano a una qualsiasi pratica sportiva, che sia sport di squadra o individuale, ma servirebbe anche ricordare ai genitori che sono innanzitutto educatori; ricordiamo che gli allenatori hanno anche una funzione educativa, e non solo di gestione del gioco. 


Alberto Fiaschè

IL DOPING: leggere attentamente il foglio illustrativo, NON SOMMINISTRARE AGLI SPORTIVI





Esatto, non somministrare. La frase finisce così perché penso che non si debba aggiungere altro, perché in fondo lo sanno tutti: il doping fa male, giusto? 
Ma se fa male, perché è un fenomeno in crescita?

Cos è il doping?

La parola doping è entrata ormai nel nostro vocabolario quotidiano, quasi sempre collegata ai contesti sportivi per indicare l’assunzione da parte di un atleta di una o più sostanze illecite con il fine di eludere la percezione della fatica psico-fisica e poter più facilmente raggiungere un obiettivo. Non conosciamo esattamente da dove derivi il concetto di doping, alcuni ritengono che derivi dalla parola olandese doop facendo cuocere insieme tabacco e stramonio si dava vita a questa “salsa densa” utilizzata da molti rapinatori per sedare le proprie vittime. Altri riconducono il termine alla parola dop  una sostanza esaltante utilizzata dagli sciamani del Sud Africa durante le loro cerimonie mistiche. 

Il doping è un facilitatore, ovvero un mezzo per giungere alla meta sportiva prendendo una scorciatoia eticamente scorretta in quanto va a minare uno dei pilastri sui quali lo sport si basa: la lealtà. 
Ma fama, soldi, trofei valgono il fatto di barare a tutto il mondo e soprattutto a sé? Perché dal momento in cui uno si “dopa” dimostra che egli non è all’altezza della sfida che sta per affrontare e senza un aiuto esterno non sarebbe in grado di competere con gli altri oltre che poter vincere. La lotta al doping da parte della WADA è iniziata molti anni fa, è una lotta stressante perché il doping e i medici che favoriscono queste sostanze giocano sempre un passo avanti rispetto agli investigatori perché hanno gia inventato qualche sostanza che maschera le rilevazioni delle sostanze proibite, prima ancora che la ricerca vi sia arrivata. 

Le scuse:
Chiunque faccia uso di doping non lo reputo uno sportivo, un truffatore, ma soprattutto lo reputo un perdente. Solo un vile non ha il coraggio di accettare i propri limiti ed invece di dare tutto se stesso per provare a superarSI decide di usare queste sostanze proibite. Molti atleti quando sono stati pizzicati dai controlli anti-doping si sono pentiti di quanto avessero fatto, altri si sono giustificati dicendo che “anche tutti gli altri sono  dopati”, altri ancora hanno urlato la propria innocenza al mondo incolpando bistecche avvelenate, o che non fossero a conoscenza di ciò che avessero assunto. I casi più eclatanti sono sicuramente quelli del “CAMPIONE” di ciclismo Lance Armstrong sicuramente uno dei corridori più forti della storia del ciclismo, vincitore addirittura di 7 Tour de France la corsa più importante al mondo oltre ad altri innumerevoli trofei, anni fa contrasse un cancro che riuscì a sconfiggere ed a tornare in sella e vincere ancora. Quale storia più bella ci può essere nello sport? La Nike lo sponsorizza con un contratto milionario per la creazione del braccialetto giallo, simbolo di lotta al cancro, simbolo di un lottatore. Molti corridori hanno sempre mormorato sul conto di Armstrong, ma bisogna anche dire che un atleta che vince sempre può stare antipatico a qualche collega perché subentra anche l’invidia per tutti quei trofei, ma a nessun controllo anti-doping il “campione” risultò positivo. Quindi vince, si ritira ma le voci sulla sua lealtà si susseguono, negli anni vengono scoperti sempre più atleti colpevoli di essersi dopati che confessano anche un coinvolgimento del campione. Così l’atleta americano indice una intervista da Opra e in diretta nazionale confessò l’uso di sostanze dopanti per anni (durante tutti i 7 Tour vinti) e l’U.S.A.D.A. gli ha conferito tutto i titoli vinti dal 1998 in poi. Di seguito il video della confessione. 


Altro caso recente e discusso in Italia è lo stop del corridore Alex Swartz vincitore dell’oro Olimpico a Pechino 2008. nella marcia 50km. Egli confessò di essersi procurato tutte le sostanze dopanti personalmente, ma la cosa che più mi ha colpito nella sua intervista fu il passaggio: 
finalmente posso dirvi questa cosa che mi porto dentro da 3 anni e mi pesa come un macigno. Non sopportavo più questa bugia, ora sono contento che posso ricominciare la mia vita
dimostrazione che nonostante si sappia che il doping sia pericoloso per la salute delle persone molte di esse sembrano infatuarsi dell’idea di diventare invincibili. Una scusa che spesso si sente proferire da coloro che vengono colti positivi a controlli antidoping è: “lo fanno tutti, se non mi fossi dopato non sarei nemmeno arrivato a metà classifica” e la reputo davvero una dichiarazione grave, perché giustifichiamo un pericolo salutistico che potrebbe comportare effetti gravi fino alla morte pur di vincere una gara. Alcuni giocatori hanno dichiarato di essersi sottoposti autotrasfusioni di sangue, per molti medici dichiarata una pratica quasi impossibile per la follia e gli altissimi rischi che ne comporta un gesto simile. Ma la follia non ha confini, basti pensare che molti corridori e ciclisti sono stati scoperti positivi all’uso di sostanze dopanti durante gare amatoriali, per intenderci per quelli che fanno la gara la domenica. Nel mio articolo ho concentrato la mia attenzione su due casi celebri di due persone che hanno dichiarato di aver barato con tutte le conseguenze che ne comportino, ma non vorrei accanirmi contro due categorie molto martoriate su questo fenomeno, ma c’è anche una spiegazione: sono gli sport dove vengono effettuati più controlli antidoping con una frequenza altissima rispetto ad altri sport come il calcio, il tennis, il basket, ecc… e non pensiate che sia i soli sport dove vi sia diffusa questa pratica, negli ultimi tempi sono stati scoperti assumere sostanze proibite giocatori di tiro con l’arco, ping pong, badminton, nel salto con gli sci per fare degli esempi.


Come sconfiggere questo demone?

Possiamo tranquillamente definire il doping come il cancro dello sport, e non che sia solo in alcune discipline: è presente in tutte o quasi con alcuni sport più predisposti alla tentazione. E come si sconfigge un male che vi è dentro? Con l’educazione. 
C’è bisogno che fin dai primi passi in un qualsiasi sport vengano insegnati i capisaldi dello sport, le gioie e i dolori che lo sport regala perché solamente dopo aver pianto possiamo dire di aver veramente sorriso. Senza fatica non vi è sport, senza agonismo non esisterebbe lo sport, ma l’agonismo è insito nell’uomo che da sempre ha voluto sfidare se stesso e gli altri su prove di abilità, di forza fisica e mentale. 

bibliografia:

  • Competenza Personale e competenza sportiva; Fabio Togni; la scuola, 2009, Brescia
Alberto Fiaschè